John Wolf ha detto...
L’atteso ritorno delle voci irredentiste del fin troppo “redento” Salento, mi induce a un duplice e contraddittorio stato emotivo. Da un lato, infatti, la mia anima romantica non può che gioire nel constatare come questa irripetibile terra, pur dopo un processo di omologazione forzata operata a partire dall’assurdo accorpamento alla Puglia nel 1945, riesce ancora a produrre conati di dignità, brividi identitari, sussulti di fierezza. D’altro canto, non poca è la preoccupazione della mia anima libertaria davanti al bivio che tradizionalmente si palesa innanzi ad ogni sogno indipendentista, ossia la doppia faccia della medaglia secessionista e federalista. Se, infatti, come dice Dino Colafrancesco "la destra è apologia del radicamento, la sinistra dell'emancipazione", ogni ipotesi di separazione da un aggregato nazionale, regionale o d’altro genere può esser letto attraverso ognuna delle due lenti citate. In un’ottica proudhoniana, di “federalismo delle differenze”, la scissione da più ampie entità rappresenta l’emancipazione e, in quanto tale, la modernità. In questa concezione, il federalismo si coniuga con l’autonomizzazione, non solo di settori di territorio, ma soprattutto degli individui che lo calpestano. E’ la pratica dell’autogestione che si realizza mediante libere associazioni e liberi contratti. Una dinamica questa che investe ogni aspetto, da quello economico a quello giuridico, e che parte dalla sicurezza che l’armonia nasce dalla complessità, dalla differenziazione e non, come spesso si crede, dall’unità indifferenziata. In tal senso, di questo processo non può che far parte anche il decentramento. Accanto a tale visione, però, è facile constatare l’esistenza di una opposta concezione in cui il decentramento non è più un mezzo per l’individuazione e la differenziazione, bensì il fine ultimo in una logica di salvaguardia proprio di una unità indifferenziata cui si danno connotati etnici. Questa corrente di pensiero è inquadrabile nella cosiddetta “nuova destra” ed è perfettamente rappresentata in Italia dalla Lega Nord. La nuova destra, i cui ideologici vengono spesso incomprensibilmente vezzeggiati da certa ultra-sinistra (?) anarchica (?), si caratterizza per il rigetto della modernità intesa quale luogo del livellamento di un ordine mondiale basato sugli ideali universalisti e ugualitari post-illuministici. Lungi dal produrre un pensiero centrato sull’autonomia dinamica degli individui liberamente arrangiati, il federalismo neo-destro vede il suo perno nel radicamento, nella premoderna stasi della comunità organica, della antica Gemeinshaft in cui la cesura fra dentro e fuori era netta e corrispondente alla coppia amico-nemico. Il meccanismo di esclusione che si determina nella psicologia dello pseudo federalismo lagaiolo è stata spiegata da Gianfranco Miglio: “le differenze tra il Nord, il Centro e il Sud, alla base della proposta di tre macroregioni all'interno di un'Italia confederale, si giustificherebbero in un diverso modo di comportarsi, ragionare, vivere, e anche se vi sono - annota Miglio - perfino biologi che sostengono la permanenza di elementi genetici, come quelli etruschi e celti, alla base delle differenti identità, "quello che conta è individuare delle aree in cui gli abitanti sentano coloro che stanno al di fuori come estranei: la conflittualità amicus-hostis". Insomma, secondo un catechismo che deve ben poco a Proudhon e Cattaneo, ma molto a De Benoist, Evola e Faye, i popoli minacciati è solo radicalizzando i loro progetti indipendentisti, facendo leva sull'etnonazionalismo, che potranno contrastare quella modernità che si fonda su quei diritti dell'uomo che cancellerebbero le abitudini culturali e il senso di appartenenza alla comunità. Il nemico, insomma, è ogni forma di liberalismo e libertarismo. Il fine è la riproposizione di vere e proprie piccole nazioni su base etnica, le heimet della tradizione germanica. Esiste, è vero, anche se all'interno dei movimenti indipendentisti italiani una corrente intellettuale liberal-libertaria che contrappone alla nazione “oggettiva” teorizzata dal federalismo etnico la nazione delle volontà, sulla scorta dell’ultimo Rothbard (quello di “Nazioni per consenso”) e di Hans Hermann Hoppe, ma è talmente minoritaria che la sua flebile voce scompare fra i rutti cognitivi del populismo padano. Al più, rischia talvolta di fornire nobilitazione intellettuale ad alcune ben poco nobili tendenze razziste della base. Il pregiudizio nei confronti dell'altro ne è il collante.In definitiva, come libertario (e, incidentalmente, come salentino), sogno un federalismo proudhoniano che, come ogni lungo viaggio, può iniziare con un piccolo passo, anche dallo svincolare il tacco d’Italia dalla colonizzazione pugliese che ne ha permesso, in barba alla storia precedente l’unità, l’emarginizzazione. Poca cosa? Certo. Ma giusta. Mi duole però notare come dietro la rinnovata voglia d’autonomia del Salento ci siano personaggi più legati alla cultura della nuova destra che al federalismo libertario. Non solo, ma espressione di quella destra, tra l’altro, che più statalista non è possibile immaginare. Due considerazioni mi sorgono allora spontanee o, meglio, due citazioni mi vengono in soccorso. La prima è di un grande liberal-libertario, precursore dell’anarco-capitalismo di cui pure si fanno alfieri molti confusi ideologi federalisti contemporanei, Bruno Leoni, il quale diceva che il padrone vicino non è necessariamente meglio di quello lontano. La considerazione sulla qualità del “padrone” mi porta quindi alla seconda citazione, quella di un proverbio partenopeo che, più o meno, sentenzia che “è meglio essere testa di sardina che coda di balena”. Non vorrei che, sfruttando strumentalmente la sacrosanta insofferenza dei salentini, sia questa massima napoletana il vero primum movens dei fautori dei nuovi salotti dell’orgoglio salentino. Luigi Corvaglia
L’atteso ritorno delle voci irredentiste del fin troppo “redento” Salento, mi induce a un duplice e contraddittorio stato emotivo. Da un lato, infatti, la mia anima romantica non può che gioire nel constatare come questa irripetibile terra, pur dopo un processo di omologazione forzata operata a partire dall’assurdo accorpamento alla Puglia nel 1945, riesce ancora a produrre conati di dignità, brividi identitari, sussulti di fierezza. D’altro canto, non poca è la preoccupazione della mia anima libertaria davanti al bivio che tradizionalmente si palesa innanzi ad ogni sogno indipendentista, ossia la doppia faccia della medaglia secessionista e federalista. Se, infatti, come dice Dino Colafrancesco "la destra è apologia del radicamento, la sinistra dell'emancipazione", ogni ipotesi di separazione da un aggregato nazionale, regionale o d’altro genere può esser letto attraverso ognuna delle due lenti citate. In un’ottica proudhoniana, di “federalismo delle differenze”, la scissione da più ampie entità rappresenta l’emancipazione e, in quanto tale, la modernità. In questa concezione, il federalismo si coniuga con l’autonomizzazione, non solo di settori di territorio, ma soprattutto degli individui che lo calpestano. E’ la pratica dell’autogestione che si realizza mediante libere associazioni e liberi contratti. Una dinamica questa che investe ogni aspetto, da quello economico a quello giuridico, e che parte dalla sicurezza che l’armonia nasce dalla complessità, dalla differenziazione e non, come spesso si crede, dall’unità indifferenziata. In tal senso, di questo processo non può che far parte anche il decentramento. Accanto a tale visione, però, è facile constatare l’esistenza di una opposta concezione in cui il decentramento non è più un mezzo per l’individuazione e la differenziazione, bensì il fine ultimo in una logica di salvaguardia proprio di una unità indifferenziata cui si danno connotati etnici. Questa corrente di pensiero è inquadrabile nella cosiddetta “nuova destra” ed è perfettamente rappresentata in Italia dalla Lega Nord. La nuova destra, i cui ideologici vengono spesso incomprensibilmente vezzeggiati da certa ultra-sinistra (?) anarchica (?), si caratterizza per il rigetto della modernità intesa quale luogo del livellamento di un ordine mondiale basato sugli ideali universalisti e ugualitari post-illuministici. Lungi dal produrre un pensiero centrato sull’autonomia dinamica degli individui liberamente arrangiati, il federalismo neo-destro vede il suo perno nel radicamento, nella premoderna stasi della comunità organica, della antica Gemeinshaft in cui la cesura fra dentro e fuori era netta e corrispondente alla coppia amico-nemico. Il meccanismo di esclusione che si determina nella psicologia dello pseudo federalismo lagaiolo è stata spiegata da Gianfranco Miglio: “le differenze tra il Nord, il Centro e il Sud, alla base della proposta di tre macroregioni all'interno di un'Italia confederale, si giustificherebbero in un diverso modo di comportarsi, ragionare, vivere, e anche se vi sono - annota Miglio - perfino biologi che sostengono la permanenza di elementi genetici, come quelli etruschi e celti, alla base delle differenti identità, "quello che conta è individuare delle aree in cui gli abitanti sentano coloro che stanno al di fuori come estranei: la conflittualità amicus-hostis". Insomma, secondo un catechismo che deve ben poco a Proudhon e Cattaneo, ma molto a De Benoist, Evola e Faye, i popoli minacciati è solo radicalizzando i loro progetti indipendentisti, facendo leva sull'etnonazionalismo, che potranno contrastare quella modernità che si fonda su quei diritti dell'uomo che cancellerebbero le abitudini culturali e il senso di appartenenza alla comunità. Il nemico, insomma, è ogni forma di liberalismo e libertarismo. Il fine è la riproposizione di vere e proprie piccole nazioni su base etnica, le heimet della tradizione germanica. Esiste, è vero, anche se all'interno dei movimenti indipendentisti italiani una corrente intellettuale liberal-libertaria che contrappone alla nazione “oggettiva” teorizzata dal federalismo etnico la nazione delle volontà, sulla scorta dell’ultimo Rothbard (quello di “Nazioni per consenso”) e di Hans Hermann Hoppe, ma è talmente minoritaria che la sua flebile voce scompare fra i rutti cognitivi del populismo padano. Al più, rischia talvolta di fornire nobilitazione intellettuale ad alcune ben poco nobili tendenze razziste della base. Il pregiudizio nei confronti dell'altro ne è il collante.In definitiva, come libertario (e, incidentalmente, come salentino), sogno un federalismo proudhoniano che, come ogni lungo viaggio, può iniziare con un piccolo passo, anche dallo svincolare il tacco d’Italia dalla colonizzazione pugliese che ne ha permesso, in barba alla storia precedente l’unità, l’emarginizzazione. Poca cosa? Certo. Ma giusta. Mi duole però notare come dietro la rinnovata voglia d’autonomia del Salento ci siano personaggi più legati alla cultura della nuova destra che al federalismo libertario. Non solo, ma espressione di quella destra, tra l’altro, che più statalista non è possibile immaginare. Due considerazioni mi sorgono allora spontanee o, meglio, due citazioni mi vengono in soccorso. La prima è di un grande liberal-libertario, precursore dell’anarco-capitalismo di cui pure si fanno alfieri molti confusi ideologi federalisti contemporanei, Bruno Leoni, il quale diceva che il padrone vicino non è necessariamente meglio di quello lontano. La considerazione sulla qualità del “padrone” mi porta quindi alla seconda citazione, quella di un proverbio partenopeo che, più o meno, sentenzia che “è meglio essere testa di sardina che coda di balena”. Non vorrei che, sfruttando strumentalmente la sacrosanta insofferenza dei salentini, sia questa massima napoletana il vero primum movens dei fautori dei nuovi salotti dell’orgoglio salentino. Luigi Corvaglia
1 commento:
è un po pesante leggerlo tutto però condivido il pensiero di questo storico - filosofo (credo)non so come ma, qualche settimana fa nelle impostazioni dei commenti ho kliccato qualcosa di troppo, così i commenti postati non sono stati publicati in automatico -ora ho risolto - chiedo scusa a tutti coloro che hanno postato un commento
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